Devozione, offerta, sacrificio, questi i termini che definiscono una Devadā, ma chi erano e chi sono oggi?

Conosciute come “servitrici di Dio”, sacerdotesse-cortigiane dotate di un’ampia cultura umanistica e artistica, le Devadāsī erano vergini e giovani vestali indiane dedicate agli Dei, e ritenute veicolo di spiritualità attraverso la danza e l’atto sessuale.

Nonostante le figure di queste danzatrici siano state sempre associate alla prostituzione, esse erano considerate sacre, poiché votate alla dea Yellamma e garanti della fertilità dei sovrani e di tutta la comunità, inclusi la vegetazione e il bestiame. 

Successivamente, la possibilità delle Devadāsī di danzare all'interno dei templi è stata abolita e la pratica ha perso la sua natura devozionale e religiosa, diffondendosi soprattutto nelle caste più basse e fornendo una giustificazione sociale al fenomeno della prostituzione. Oggi sono le famiglie più povere che, per ragioni economiche, donano le proprie figlie a uomini potenti e in grado di sostenerle. 

 

Il fenomeno delle Devadāsī è il punto di partenza della riflessione di Giordana Napolitano che, con le sue opere, restituisce una visione personale su un tema che ha una connotazione storica e sociale ben definita, offrendo allo spettatore diverse chiavi di lettura.

Nonostante “Devadāsī” nasca all’interno di un progetto ben strutturato, qual è “Il Prossimo mio”,  l’artista si sente libera di portare avanti e sviluppare la sua poetica, incentrata sulla rivendicazione della sessualità femminile.

Una Devadāsī distesa è la protagonista della tela che occupa per intero la parete centrale della galleria: un grande corpo seminudo, che sembra fuoriuscire dal dipinto e dallo stesso spazio espositivo, avvolge il campo visivo dello spettatore  impedendogli di distogliere lo sguardo. La posizione di attesa, gli occhi rivolti verso l’alto e le braccia abbandonate della donna denotano l’inconsapevolezza di chi non sa di avere una scelta. 

L’immediatezza dell’immagine e la sua riconoscibilità sono tradite dall’uso di colori innaturali, tipicamente pop, applicati con la tecnica ad olio e pastelli ad olio: l’arancio dello sfondo, il viola dell’incarnato e il verde acido del drappo portano l’osservatore su un piano irreale. Su uno sfondo astratto materico, memore delle prime esperienze informali dell’artista, si staglia un telo, espediente necessario per ricondurre alla realtà la naturale carnalità del corpo.

Nel lavoro di Giordana l’astrazione convive dunque con la figurazione, espressione prediletta dall’artista, dettata dall’urgenza di un’arte che non ha più bisogno di mediazioni.

 

Sulle pareti laterali, immagini stereotipate di danzatrici indiane si alternano a scene erotiche più esplicite: il piccolo formato di queste tele non toglie forza al tema dominante dell’intera esposizione.

Nelle prime, ogni ballerina, ritratta secondo l’iconografia tradizionale, occupa il centro della tela in una posizione verticale e si pone davanti a una forma che richiama simbologie falliche, diventandone la proiezione. È la donna creata dall’uomo, atta a soddisfare i suoi bisogni sessuali.

Le scene erotiche offrono una lettura completamente opposta, in linea con una precisa volontà da parte dell’artista di esibire una diversa visione della sessualità femminile: il punto di vista cambia e la posizione diventa orizzontale. La donna rivendica il suo erotismo, da oggetto del piacere ne diviene il soggetto, finalmente in grado di essere padrona del proprio corpo. Questa consapevolezza viene rafforzata dalla scelta di rendere ‘presente’ lo sguardo femminile, omettendo del tutto quello maschile. Nasce una nuova donna, pienamente cosciente del suo Io e pronta ad affermarsi, in nome di una rinnovata sensualità.

Queste tele completano la riflessione di Giordana Napolitano, senza esaurire una problematica così ampia e attuale come la condizione della donna, la sua valorizzazione e l’eguaglianza dei generi.

 

a cura di Sguardo Contemporaneo